Lo è anche per altre Borse europee. I motivi che determinano una fuga che coinvolge big e small dei mercati. Con danni per l’economia nazionale e per gli investitori, pure loro responsabili però di questa situazione.
Buy or sell
Autore foto: treeffe / Ringraziamenti: Getty Images - Copyright: Fabio Ficola
La notizia – così come comunicata dalla stessa società – non lascia adito a dubbi. Pioggia di acquisti su Piazza Affari per Bialetti dopo l'annuncio che la lussemburghese Nuo Capital, controllata dal magnate cinese Stephen Cheng, ha sottoscritto due contratti per l'acquisto complessivo del 78,567% del suo capitale sociale. A seguito del closing, atteso entro fine giugno, sarà promossa un'Opa obbligatoria sulle restanti azioni in circolazione, finalizzata al delisting. L’ennesimo a Borsa Italiana. Cosa sta succedendo?
Sulla vicenda Bialetti c’è poco da aggiungere… |
Il titolo della società bresciana produttrice di caffettiere e piccoli elettrodomestici (inventrice della Moka) ha messo a segno ieri un rialzo del 61,3%, chiudendo la seduta a 0,45 Eur e avvicinandosi al corrispettivo dell'Opa, previsto non inferiore a 0,467 euro, con volumi di tutto rilievo. La performance a sei mesi è così stata del 147%. |
Un’occasione persa o un’occasione colta da qualcuno? |
Che qualcosa si muovesse attorno alla società si era già avvertito nei mesi scorsi, con improvvisi picchi di prezzo e di contrattazioni. Poi lunedì 31 marzo scambi in netto rialzo con un’anomala volatilità ni base alle prime indiscrezioni che i cinesi si erano fatti avanti. Pur in presenza di altri nomi, quali Hermes ed Exor. |
E adesso spazio al tema dei delisting, un vero problema per Piazza Affari! |
Nel 2024 sono stati quasi una trentina, di cui alcuni molto significativi. È il caso di Cnh, Tod’s e Saras fra i nomi maggiori. La serie è poi proseguita nel 2025. Con un trend confermato anche da altre piazze europee. Londra, per esempio, ha subito una vera e propria emorragia, sebbene in questo caso si sia sentita l’onda lunga della Brexit. |
Il tutto avviene al contrario di quanto si registra a Wall Street, decisamente più competitiva. È così? |
Lo è stato finora ma adesso si cominciano ad avvertire tensioni anche oltre Oceano, ennesimo effetto negativo della Presidenza Trump. In realtà la crisi europea è iniziata con il Covid, che ha inciso pesantemente sulla redditività delle aziende, obbligandone alcune a rivedere le proprie strategie di presenza sui mercati. |
Si dice che i motivi del tutto siano i bassi scambi di Borsa Italiana e i notevoli costi di permanenza sui mercati, specialmente per quelle aziende che hanno un flottante modesto. Vediamo cosa prevale fra i due fattori? |
Gli scambi sono in molti casi effettivamente bassi e ciò dipende anche dalla frammentazione e dalla tendenza degli investitori europei di puntare solo sulle Borse nazionali. Quanti, per esempio, da noi comprano azioni quotate a Parigi, a Bruxelles o ad Amsterdam? Pochi, ovvero un’élite, abituata all’internazionalizzazione dei portafogli. E lo stesso avviene per i tedeschi o i francesi rispetto ai nostri listini. Questa realtà è ancor più criticabile se si pensa che Euronext - che controlla Borsa Italiana - è un gruppo globalizzato: gestisce infatti anche Parigi, Amsterdam, Bruxelles, Dublino, Lisbona e Oslo. Ciò dovrebbe favorire l’integrazione ma la pigrizia degli investitori non aiuta in tal senso, anche perché si dà troppa attenzione da parte dei media a quanto avviene oltre Oceano, trascurando le piazze europee. |
Si diceva poi di un problema di costi. Quanto pesa? |
Il contesto italiano, fatto di piccole e medie imprese, è inevitabilmente sensibile ai costi per restare quotati. Inoltre c’è anche un aspetto di ricerca di flessibilità, che porta a uscire dalla Borsa, in quanto le normative e la tanta burocrazia pesano su chi si è avventurato nel quotarsi. Attenzione però a fare di ogni erba un fascio: ci sono pure altre storie, che derivano da fusioni, Opa e quant’altro. Che il problema tuttavia delle inefficienze da burocrazia sia sentito lo conferma tutto quanto avviene nell’intero ciclo della gestione finanziaria: ci sono strumenti che implicano troppi documenti da sottoscrivere per il piccolo investitore. Che fugge e preferisce comprare prodotti semplici. Ecco lo stesso avviene – in scala maggiore – per chi si propone in Borsa. |
Ci sarebbe quindi bisogno di una deregulation? |
Più che di una deregulation sarebbe necessaria una semplificazione. Purtroppo nessuno ne parla e lo dimostra l’occasione persa dei Pir (Piani individuali di risparmio): su questo fronte hanno perso tutti, confermando come la complessità di certe norme porti a una diminuzione di trasparenza e di comprensione dei prodotti da parte di chi investe. |
Tornando al tema delisting è indubbio che si perdono così occasioni di finanziare direttamente l’economia reale? |
Certamente e il deserto in cui si muovono non poche azioni – pur significative – ne è la causa. Si noti che solo in pochi casi il delisting è avvenuto per crisi finanziare o commerciali delle società interessate. Si consideri infine un aspetto pure rilevante: talvolta chi scappa va verso lidi fiscalmente più convenienti all’interno della stessa Unione Europea. È una concorrenza scorretta cui bisognerà porre rimedio il prima possibile. |