Molti richiami positivi, con tre timori di fondo che restano inalterati. Di cui il maggiore riguarda le politiche monetarie delle Banche centrali.
Cedole & dividendi
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Il sentiment prevalente sui mercati è più eterogeneo di quanto le Borse non facciano credere e il motivo deriva dal timore che le politiche monetarie espansive adottate dalla Banche centrali debbano restare tali per molto più tempo di quanto si pensi. Lo fa credere la decisione della Boe (Bank of England) di mantenere i tassi allo 0,25%, ufficialmente perché vede la crescita del Pil della Gran Bretagna nel 2017 al +1,7%, inferiore alle previsioni di inizio anno. La realtà è ben diversa: si teme che esploda una bolla nell’immobiliare inglese, con un rialzo del costo dei mutui, che porterebbe a un crollo dei prezzi. Il problema si pone anche negli Usa, con un’estensione a tutti gli altri comparti economici, se si considera che il debito complessivo delle famiglie ha raggiunto i 12,73 trilioni di $ contro il precedente record di 12,68 trilioni del 2008. Già del 2008, quando iniziò la tragedia “subprime”! Oggi, oltre Atlantico, le cosiddette “mortgage rates” cominciano a essere elevate. Una simulazione per un prestito immobiliare di 200.000 $ evidenzia tassi dal 3,7 al 4,2%, proprio perché l’esperienza dei primi anni 2000 ha lasciato una ferita: si tende così a concederli meno facilmente e il costo delle operazioni è aumentato. In Europa la situazione non appare migliore se si considera che il debito medio delle famiglie equivale al 93% del loro reddito, con vari Paesi dove supera ampiamente il 100%.
La sintesi appare evidente: i tassi a zero hanno aumentato l’esposizione al credito, nell’illusione che si trattasse di un miracolo imprevisto. Ora che si tratta di modificare le politiche espansive, ci si rende conto che i rischi conseguenti sono enormi e potrebbero trasformarsi in fattori di accelerazione di crisi finanziarie. Ecco perché le Banche centrali nuotano nel fango: se aumentano mettono una corda al collo di chi si è esposto; se non aumentano vedono accrescere ancor più la propensione al debito dei cittadini. Uno scompiglio quindi da cui non sanno come uscire. Come interpretarlo in termini di rischio? Non c’è risposta, visto che non l’hanno nemmeno i padroni della finanza globale!
E ora gli altri parametri.
Consensus Index Usa - I sondaggi sul sentiment degli investitori statunitensi sono molto importanti, perché condizionano in un certo senso i mercati. L’ultimo (riferita al giorno 2 agosto) evidenzia questi dati rispetto all’investimento azionario.
Valutazione |
% su totale (100%) |
+/– rispetto 7 giorni prima |
Rialzista |
36,1 |
+1,7% |
Neutrale |
31,8 |
-9,4% |
Ribassista |
32,1 |
+7,8% |
Il sentiment sta muovendosi verso un bilanciamento fra rialzisti e ribassisti. Il verdetto inevitabile: né “risk off” né risk on”. Occorre però segnalare che altre ricerche evidenziano ancora un prevalere dei “bullish”.
Bond Us Confidence Index – Va in direzione opposta rispetto al consensus index di cui si è appena detto. Quello riferito alle obbligazioni “high grade” aumenta, il che significa maggiore propensione all’investimento su quest’asset rispetto all’azionario. L’ultimo dato riferisce di un 76% di fiduciosi contro il 66,4% di un anno fa. In tal caso si verifica un chiaro “risk off”, che contrasta con il punto successivo. C’è chi lo interpreta come il timore che Trump viva mesi autunnali politicamente torridi.
Previsioni tassi Usa – Gli asset manager Usa propendono per un rialzo di quelli di mercato riferiti al decennale d’oltre Oceano. Non pochi report inclinano un 2,75% entro fine anno rispetto al 2,26% di venerdì in chiusura. Sarebbe un bel passo avanti, che avvicinerebbe al 3% ipotizzato a inizio 2017. Ciò porterebbe a una situazione più chiara sul fronte obbligazionario, cominciando a stemperare le tensioni degli ultimi mesi. Le chiavi di lettura possono essere diverse, ma forse è il caso di dire che si tratta di un “risk on”, poiché finalmente il decennale Usa darebbe un segnale di fiducia per l’economia a stelle e strisce. Così, almeno a Washington e dintorni, l’aspetto dei tassi primari, di cui si è detto all’inizio, troverebbe forse una parziale risposta.
Gold Mining Index – Altro indicatore di sentiment dei mercati. Se sale si va verso l’investimento in titoli auriferi e quindi in oro. Nella settimana appena finita si è collocato a 494 punti, sulla parte bassa della forchetta degli ultimi dodici mesi, compresa fra il massimo a 634 punti e il minimo a 443 punti. In questo caso l’indicazione è chiara: “risk on”.
Inflazione area euro - Secondo l’Ufficio statistico europeo (Eurostat), che ha pubblicato la stima per il mese di luglio, l’inflazione è attesa all’1,3%, su base tendenziale, come nel mese precedente. Il dato è in linea con le aspettative. L’inflazione “core” – che esclude energia, cibo e tabacchi – è invece vista in crescita al +1,2%. Nessuna novità; ciò può essere visto come uno statu quo e quindi un “risk on”.
Bund – Il decennale è tornato sotto lo 0,5% di rendimento, collocandosi sullo 0,47%, ma tenendo conto dell’effetto dollaro, pesantemente condizionante per l’export tedesco (si veda la debolezza dei titoli automobilistici), lo switch sui governativi di Berlino non appare preoccupante. Un altro “risk on”, pur con qualche riserva.
Dax Vix – L’indice di volatilità sull’indice tedesco è realmente attendibile? Sempre più si sentono voci contrarie. Comunque vale la pena analizzarlo: è poco sopra i minimi storici e venerdì ha perso il 6,7%, con tutti gli indicatori che dicono “sell”. Di nuovo “risk on”, per quanto valga come avvisaglia.
Ifo - L'indice aziendale tedesco Information und Foschung fotografa il sentiment e le condizioni nel comparto imprenditoriale della zona euro. Il dato proviene da un'indagine condotta presso circa 7.000 aziende. L’ultimo valore – riferito a fine luglio – si è collocato sui 116 e conferma un trend al rialzo in atto dall’estate dell’anno scorso. Ulteriore “risk on”.
Dollar Index – Infine decisivo l’indice di rapporto fra il biglietto verde e le altre maggiori valute dei Paesi sviluppati. Sceso sui minimi di 92,5 ha rimbalzato venerdì sui 93,4. Non è ancora un segnale di inversione e quindi di rafforzamento, ma il superamento di area 94 costituirebbe un ottimo indizio. Si aspetta e non si attribuisce né un “risk off” né un “risk on”.
La valutazione complessiva appare favorevole, con un netto prevalere dei “risk on” soprattutto nell’area euro, pur con tre variabili da valutare:
1°) Le politiche delle Banche centrali. Si riconferma decisivo in proposito il meeting a porte chiuse di Jackson Hole (Usa) di fine agosto. Da lì potrebbero uscire indicazioni più precise delle possibili evoluzioni in materia.
2°) La debolezza del dollaro, che sia pilotata o effettiva fotografia di stanchezza dell’economia Usa. Seguire il Dollar Index è determinante per capire le condizioni di salute della divisa statunitense.
3°) Trump e la sua politica schizofrenica, per gli effetti indiretti che comporta su Wall Street, dollaro e tutto quanto connesso.
Su questi tre punti è “stand by”. Sugli altri è “forza e coraggio”, se vogliamo tornare alle parole di casa nostra.