L’Italia rischia il default? Facciamo un po’ di calcoli per capire


Solo numeri e niente considerazioni politiche, salvo una finale. C’è un pericolo reale? Può sembrare paradossale ma è potenzialmente maggiore sul breve/medio termine che sul lungo. Ecco perché e come evitarlo.

Cedole & dividendi

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La reazione dei mercati di venerdì all’approvazione del Def da parte del Consiglio dei Ministri è risultata allineata a quanto avviene nei momenti di forte stress: vendere le emissioni lunghe e trasferirsi in parte sulle cortissime (Bot, Ctz, Btp/Cct 2019). Scelta corretta? No, perché i numeri dimostrano che rischi maggiori l’Italia li corre potenzialmente proprio nel breve/medio termine.

● Il quadro delle difficoltà che l’emittente nazionale si appresta ad affrontare è infatti complesso.

1°) La vita media ponderata dei nostri titoli di Stato è bassa, poiché di 82,5 mesi, ovvero 6,875 anni. Non appare molto diversa da quella di altri Paesi europei, con una differenza: da noi il tentativo di allungare il debito ha trovato più ostacoli rispetto all’estero, per una complessa serie di ragioni.

Il quadro di durata, per tipologia di strumenti, si struttura così:

Bot

5,18 mesi

0,43 anni

Ctz

13,17 mesi

1,09 anni

Btp Italia

51,91 mesi

4,32 anni

Cct

52,11 mesi

4,34 anni

Btp€i

91,69 mesi

7,64 anni

Btp

92,70 mesi

7,72 anni

Se si effettua un confronto con la situazione, per esempio, del settembre 2000 (quando lo scenario dell’esposizione al debito era migliore) si nota un allungamento ma insufficiente: il dato globale si fermava allora a 69,07 mesi. La dilatazione temporale è stata quindi nell’intero periodo del 19,4%, equivalente a un 1,077% annuo. Poca cosa, anche se – sia chiaro – una simile trasformazione è più spinosa di quanto possa apparire a chi non sia addentro a un tema così macchinoso.

2°) La situazione dei titoli in scadenza, nel 2019, sembra molto pesante:

Bot

67,4 miliardi euro

Btp e Btp€i

163,1 miliardi euro

Cct

12,4 miliardi euro

Ctz

23,2 miliardi euro

Totale

267,1 miliardi euro (1)

  1. (1) Dato comprensivo anche di altre voci

    Il peggio si registrerà fra febbraio e marzo.

    E successivamente? I dati potrebbero trarre in inganno, poiché non prevedono le brevi scadenze (soprattutto Bot) rinnovate annualmente.

2020

194,9 miliardi

2021

180,4 miliardi

2022

174,5 miliardi

2023

176,7 miliardi

Oltre il 2023 la curva tende a scendere poiché le relative emissioni sono inferiori e spesso di minore importo globale.

Ce la farà il Tesoro a rifinanziarsi nel 2019?

I fattori di incertezza sono molteplici: 1°) L’avvicinarsi delle elezioni europee potrebbe portare Bruxelles a bastonare l’Italia, con uno scontro che farebbe molto male alla nuova raccolta. 2°) Il Qe finisce. 3°) Il possibile incremento dei tassi Bce in estate eserciterà già in anticipo pressioni sul costo del rifinanziamento. 4°) L’inflazione aumenta e porta gli investitori a cercare maggiori rendimenti su una platea più ampia di emittenti. 5°) Un eventuale forte incremento della spesa pubblica – il cosiddetto fattore G – spaventerebbe i mercati: oggi siamo circa al 53% del Pil, una sproporzione, condivisa però con altri Paesi europei. 6°) Le incertezze sull’economia, problema fra l’altro dell’intera Ue, potrebbero pesare.

Ci sono ulteriori fattori ma rientrano nella sfera della politica e non tocca a noi analizzarli.

3°) Ancora troppo debito in mano agli stranieri? Il rischio evidente è quello di un “sell off” generalizzato, sebbene non si debba dimenticare che gli istituzionali si coprono dal rischio Paese con gli swap. La possibilità di una generalizzata svendita è quindi marginale, salvo che la situazione peggiori talmente tanto da portare fuori controllo il costo della protezione. In totale si stima che il debito italiano nelle mani degli stranieri assommi a circa il 32% contro quasi il 57% della Germania. Il nostro dato è nel complesso accettabile, seppur esponga a vari rischi.

La ripartizione italiana è così strutturata

Banche nazionali

26,9%

Investitori istituzionali (fondi pensione ecc.)

20,9%

Banca d’Italia (per Qe)

15,9%

Privati

4,3%

4°) Meno operazioni di riduzione del debito. Dal 2000 ogni anno – salvo nel 2008 e 2009 – il Tesoro ha attivato interventi di contenimento del debito attraverso riacquisti o concambi su altri titoli, seppur gli importi non sempre siano stati rilevanti. Nel 2018 non si è visto molto, salvo un’iniziativa ad aprile.

5°) Il costo enorme è un altro problema. Il Qe non è servito ad abbassare il peso degli interessi riconosciuti ai detentori di titoli di Stato. Il valore resta sopra i 60 miliardi l’anno, meno rispetto per esempio agli 84 del 2012 ma pur sempre tale da impattare negativamente sul totale del debito pubblico, che in un simile contesto non può scendere.

● Abbiamo visto i fattori negativi ma ce ne sono anche di positivi.

1°) Il tasso medio delle emissioni di titoli di Stato rimane bassissimo: a giugno il dato ufficiale comunicato dal Tesoro è risultato dello 0,75%, in leggera crescita rispetto agli ultimi due anni ma in netto calo per esempio in confronto al 4,79% del 2000.

2°) L’arrivo dei Cir – se ben gestiti – potrebbe salvarci. Dei conti individuali di risparmio si sa ancora poco ma l’idea è geniale. I dettagli verranno resi noti fra qualche settimana. Si parla di quattro categorie (Cir ordinario, Cir lavoratori dipendenti, Cir Tfr e Cir junior) destinate a diverse tipologie di destinatari. L’obiettivo è di stabilizzare i titoli di Stato attraverso una detenzione di lungo periodo proponendo diverse agevolazioni fiscali e favorendo gli italiani rispetto agli stranieri, il che potrebbe però sollevare critiche da parte della Ue. Riguarderanno solo le nuove emissioni sul mercato dal 2019. Ecco un modo per affrontare il picco di rifinanziamenti del prossimo anno e per ridurre la volatilità media dei Btp sul secondario. Chi li deterrà infatti nei Cir sarà invogliato a portarli a scadenza, consentendo un indiretto allungamento della vita media dei nostri governativi. Inoltre ciò permetterà di aumentare la quota di debito controllata dagli investitori privati, ora abbastanza bassa.

3°) Le “Cacs” – se correttamente utilizzate – eviterebbero un default, sostituendolo con una meno dirompente ristrutturazione. Le cosiddette clausole di azione collettiva, entrate in vigore nel 2012 per le emissioni proposte dal 2013, con scadenza oltre i 12 mesi e per una quota massima del 45% dei titoli, prevedono che la data di scadenza dei governativi europei possa essere posticipata, che si ritardi o addirittura decurti il pagamento di cedole e rimborsi, si cambi il metodo di calcolo dei versamenti e infine – caso limite – si trasformi la valuta di riferimento. Una classica “porcheria” per i piccoli risparmiatori, concepita da qualche cervellone di Bruxelles, ma una salvaguardia nel caso di prossimo default. Lo Stato eviterebbe di naufragare, spostando soprattutto scadenze e pagamenti. L’immagine dell’Italia crollerebbe ma si contribuirebbe alla riduzione del debito. Finora nessuno ha applicato le Cacs; ciò non esclude il loro potenziale utilizzo in situazioni estreme.

4°) Come debito pubblico per abitante siamo in buona compagnia. Ci sentiamo spesso dire che ogni bambino che nasce in Italia ha sulle spalle 37.351 euro di debito pubblico. La situazione non è però migliore in altri Paesi europei.

Irlanda

42.073 euro

Belgio

39.833 euro

Italia

37.351 euro

Francia

33.613 euro

Austria

32.998 euro

Grecia

29.476 euro

Si potrebbe dire “mal comune mezzo gaudio”.

5°) Il default dell’Italia sarebbe una Lehman all’ennesima potenza. Bene o male si consente al Venezuela di non dichiarare default seppur vi sia già. Figurarsi quali salvagente scatterebbero per il nostro Paese da parte delle varie Troike e quant’altro!

In conclusione

Il panorama generale è certamente a tinte fosche con margini di manovra però abbastanza ampi e finora inesplorati. Il tentativo da seguire è quello di un maggiore allungamento del debito, strada praticata un po’ in tutto il mondo. Non è un modo di dilazionare il problema, che resta ed è gravissimo, ma di sgonfiare la gobba del breve/medio termine. Nel frattempo occorre affrontare il tema della sua riduzione: un 53% di Pil composto da spesa pubblica è una follia, tanto più se si considera che la qualità dei servizi in molti casi appare pessima. Il vero problema è questo ma i politici di tutte le parti non vogliono che si dica: da 40 anni è la loro mucca da mungere. O si abbassa la percentuale o il default – prima o poi – si approssimerà, per essere poi in qualche modo tamponato. Il problema è che i tempi per intervenire sono ormai di una rapidità estrema.

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