Guadagnare “NON” in Borsa: il boom del “private equity”. Pro e contro


Attraverso fondi e fondi dei fondi si entra in un mondo tutto nuovo, con prospettive di rendimenti nettamente maggiori rispetto alla Borsa. Ci sono però molti vincoli. Un’alternativa? Gli Etf specifici, di cui uno quotato anche a Milano (e quindi si torna in Borsa!).

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Il “private equity” è ormai proposto a larghe mani dall’industria finanziaria anche agli investitori italiani. Precisiamo prima di tutto in maniera schematica di cosa si tratta. E’ un'attività mediante la quale un soggetto (solitamente investitore istituzionale) rileva quote di una società definita “obiettivo” acquisendo azioni da terzi o sottoscrivendo azioni di nuova emissione. In conclusione apportando capitali senza una quotazione in Borsa. L’attività viene poi inserita in fondi e in fondi di fondi proposti appunto agli investitori.

Secondo una recente indagine presentata a “SuperReturn”, evento annuale del settore tenutosi a Berlino, è questa la nuova alternativa alle Borse internazionali, destinata a sostituirle in parte sul mercato dei capitali. Vero o falso? In altre parole è conveniente aderire alle offerte che cominciano a diventare sempre più numerose da parte non solo dei “private”?

Secondo Blackrock, una delle leader della gestione del risparmio a livello mondiale, il 47% della clientela vuole ridurre l’esposizione all’azionario e rifugiarsi nel “private equity” per vari motivi: bassa volatilità, rendimenti maggiori e costanti nel tempo e minore operatività. I numeri presentati a “SuperReturn” sono in effetti clamorosi. Dal 2004 al 2018 quest’alternativa ha già sovra performato ogni anno l’azionario di 530 punti base e l’obbligazionario di 327 punti base. Non solo: secondo valutazione di Cambridge Associates la redditività delle aziende acquisite dal “private equity” è doppia rispetto alle quotate, mentre in termini di Ebidta (margine operativo prima di interessi, tasse, svalutazioni e ammortamenti) si ha un progresso medio maggiore: +7,9% contro il +6,4% delle quotate.

Entusiasmo eccessivo? In una delle relazioni presentate si è precisato come il motivo forte della maggiore competitività stia nel fatto che le capacità di acquisizione delle società di “private equity” sono nettamente migliori rispetto a quelle dei classici investitori che poi si quotano in Borsa. Di qui deriverebbe il fenomeno della fuga dai listini, trend inequivocabile negli Usa e che sta cominciando a verificarsi anche in Europa, per motivi soprattutto di instabilità delle quotazioni e di riduzione dei costi.

Un esponente di Apollo Management, società americana di investimenti in “private equity”, specializzata in operazioni di leveraged buyout, acquisti di imprese in sofferenza che comportano ristrutturazioni o consolidamenti, sostiene che ci sono molte realtà quotate con storie complicate alle spalle, le quali hanno difficoltà a mettersi in luce in Borsa. L’alternativa di uscirne diventa quindi decisiva e la ricerca di altre soluzioni ancor più determinante.

La conseguenza è inevitabile. Gli importi delle transazioni effettuate nell’ambito del “private equity” crescono a dismisura con trend in accelerazione dal 2015 in poi. Tutto bene ma per voi piccoli e medi investitori questo trend è benefico e soprattutto cosa comporta tale mutamento rispetto alle classiche formule del gestito (fondi e quant’altro) o dell’amministrato (acquisto diretto di azioni)?

Sintetizziamo i vari aspetti per giungere poi a una conclusione.

Chi può investire nei fondi di “private equity”?

Alcuni intermediari consentono l’acquisto da parte di qualunque investitore (retail e professionali) e altri invece li limitano solo agli operatori qualificati, con comunque una verifica del patrimonio globale investito. Se si hanno in totale 100.000 o 200.000 euro non verrà consentito il collocamento in un fondo di questo tipo

Ci sono tagli minimi?

Anche da questo punto di vista c’è chi fissa limiti alti (almeno 500.000 euro o dollari) e chi invece li abbassa fortemente (come minimo 100.000 euro o dollari)

Si hanno quotazioni aggiornate dei fondi?

Solitamente solo con cadenza trimestrale, il che dipende dal fatto che il business di riferimento è tendenzialmente poco volatile

Quali sono le principali attività sottostanti?

Quelle classiche del “private equity”: investimenti diretti in aziende attraverso diverse modalità operative; acquisti di prestiti o obbligazioni sul mercato a prezzi inferiori ai valori nominali; direttamente in nuovi strumenti di capitale di rischio o di debito di società

Le quote si possono vendere?

No, si possono solo trasferire a un investitore che voglia subentrare

L’investimento ha una scadenza?

Solitamente è di dieci anni ma si può anche salire a 15 anni

Quali sono i costi?

Dipende dal collocatore. Attenzione agli oneri di sottoscrizione, comunemente previsti e non marginali

Ci sono dei proventi annuali?

Sì con modalità differenti a seconda del fondo. Solitamente si prevedono dopo alcuni anni dall’investimento ma di fatto sono anticipi di rimborso del capitale investito quando ha realizzato profitti

La liquidazione del fondo quando avviene?

Al termine del periodo previsto (comunemente i 10 anni di cui si diceva) o in casi particolari specificamente disciplinati

Quale il maggiore rischio?

Che il capitale investito debba – per scelte errate – essere convertito in partecipazioni al capitale delle aziende controllate, opzione ipotizzata da non pochi fondi

Quale il maggiore vantaggio?

Una redditività nel lungo termine maggiore e non di poco rispetto al puro posizionamento azionario

Quale il maggiore difetto?

L’investimento di lungo periodo, inevitabile dato il tipo di struttura dei fondi

Ci sono alternative?

Sì, sebbene indirette. Per esempio sono quotati Etf con indici di riferimento che replicano le maggiori società e fondi “private equity” quotati in Borsa. Una conferma è il Lyxor Privex Etf (Isin LU1812091947), presente anche a Milano e che può essere trattato continuativamente. Ha un Ter dello 0,70% ed è denominato in euro

In conclusione a chi conviene investire nel “private equity”?

A investitori fra i 30 e i 60 anni che possano guardare al lungo termine e che intendano diversificare, puntando a un rendimento medio più elevato rispetto a quello puramente azionario

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