Btp e Bund, state attenti perché ci perdete, salvo che…


L’inflazione risale ma i tassi medi delle nuove emissioni restano bassissimi. E sul secondario solo con i Btp lunghi (dalle “duration” impossibili) si rosicchia qualcosa.

Cedole & dividendi

La situazione è molto più pericolosa di quanto il mondo degli investimenti non metta in evidenza, anche perché la pervicacia con cui la Bce rifiuta di normalizzare la politica monetaria rischia di aggravare una realtà già molto condizionante per i piccoli e medi risparmiatori. Cosa accade? Che essere investiti oggi su Btp e Bund, ma non solo, significa una perdita secca in termini di rendimenti reali. Negli ultimi due anni invece la forbice era nettamente minore, poiché a yield ridottissimi si contrapponeva un’inflazione a zero.

I numeri sono semplici da spiegare. Il tasso medio in emissione di Btp e Bund è molto basso: 0,73% (a fine settembre) per i primi e poco sopra lo zero per i secondi. L’inflazione però sta salendo: quella ufficiale è in Italia all’1,1% (dato di settembre), ma era già all’1,9% ad aprile, mentre in Germania si assesta all’1,6%. Ciò significa che il divario fra il primo dato, cioè il tasso medio all’emissione, e quello del costo della vita si allarga comportando una perdita relativamente allo yield depurato appunto della svalutazione. Certo c’è chi ha in portafoglio Btp e Bund acquistati a condizioni molto più favorevoli rispetto alle quotazioni di oggi e ai valori delle nuove proposte del Tesoro, ma il peso sull’insieme di coloro che si trova in tale status si riduce sempre più.

La comitiva è vasta, sia chiaro! Tutta l’area Ue vive naturalmente questa nuova realtà, venuta a galla negli ultimi mesi, proprio a causa del rialzo dell’inflazione. Con noi ci sono anche Gran Bretagna, Stati Uniti, Polonia e altri Paesi dell’est Europa, che non hanno adottato l’euro. Ma siccome Btp e Bund risultano quelli più massicciamente presenti nei patrimoni degli italiani, è a loro si deve guardare. Sulla curva dei rendimenti per superare l’1,1% dell’inflazione italiana occorre posizionarsi almeno su un Btp a 7 anni, ma il 10 anni è solo di poco sopra, senza tenere conto poi di oneri fiscali e commissioni di intermediazione. Su quella tedesca la situazione è ancora peggiore: l’1,6% non si ottiene nemmeno con il trentennale!

Il quadro potrebbe addirittura aggravarsi nel 2018, rendendo Btp e Bund ancora meno interessanti, perché il rialzo dei tassi avverrà (se avverrà) nel 2019, mentre l’inflazione non è certo destinata a ridursi. E allora che fare? Analisi di Lombard Report dimostrano che il prossimo anno solo alcuni Paesi emergenti riusciranno probabilmente a riconoscere yield positivi: in particolare si tratterà di Argentina (circa il 9% di saldo attivo), Russia (5,5%), Brasile (5%), Messico (3,5%) e Sud Africa (3%). Attenzione però: la stima si riferisce a titoli di Stato nelle valute locali e non in dollari, questi ultimi i soli presenti sulle piattaforme di casa nostra. Gli altri sono quasi soltanto acquistabili sui mercati “Otc”, mettendo non pochi risparmiatori nella condizione di dover dire “bye bye”.

In sostanza oggi investire o restare investiti (salvo situazioni molto favorevoli di prezzi di carico bassi, eredità soprattutto della crisi del debito sovrano del 2011) su Btp e Bund ha davvero poco senso, sebbene i media generalisti – e perfino quelli finanziari – non lo dicano. Solo quando la situazione dei tassi si sarà ristabilita i governativi europei potranno tornare d’attualità. Ma di tempo ce ne vorrà tanto, sempre che nel frattempo non intervenga qualche altra stramaledetta crisi, che né i politici né la Bce sapranno adeguatamente anticipare.